⚠️ L’articolo seguente è apparso per la prima volta su WAR, newsletter settimanale che scrivo insieme a Gabriele Cruciata e Simone Fontana per Wired Italia. Per leggere le nuove puntate ogni settimana, potete iscrivervi qui. ⚠️
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Sono passati sei anni da quando Facebook, in una delle sue infinite acquisizioni, ha incorporato CrowdTangle. L’idea dietro al potente strumento di social listening, utilizzato ampiamente da giornalisti, ricercatori e altri specialisti dei media, era quella di permettere di monitorare in tempo reale i post e gli account più influenti su Facebook, Instagram, Reddit e Twitter, individuando i temi più caldi della giornata, i post che sono circolati di più, gli articoli più condivisi. Con enorme sgomento di Facebook, però, i giornalisti si sono presto accorti di un’altra virtù di CrowdTangle: il fatto che sia, ad oggi, uno dei pochissimi modi di sbirciare nella scatola nera di metriche della piattaforma social più usata al mondo. Insomma, un involontario strumento di trasparenza.
Soprattutto durante la presidenza Trump, da questo grande potere sono derivate grandi seccature per Facebook: il giornalista del New York Times Kevin Roose, per esempio, gestisce ormai da anni un account Twitter in cui ogni giorno condivide i 10 post pubblici che hanno generato più engagement su Facebook nelle scorse 24 ore, mostrando a tutti come, quasi sempre, siano commentatori e figure pubbliche molto conservatrici a ottenere la maggior attenzione sulla piattaforma. Fior fiore di articoli giornalistici e pubblicazioni accademiche negli ultimi anni hanno esaminato i dati di CrowdTangle per giungere alla conclusione che la piattaforma è inondata di contenuti di destra.
Facebook ha provato a rigirare la questione per fare una figura migliore, affermando a più riprese che la metrica più importante a cui guardare per capire quali sono i post che vanno meglio su Facebook sarebbe il reach (ovvero il numero totale di persone che hanno visto un post), e non l’engagement (che comprende tutte le azioni intraprese dagli utenti, inclusi like, commenti e condivisioni). Peccato che quando il team di CrowdTangle ha provato a vedere se riordinando i post più popolari su Facebook in base al reach sarebbe cambiato qualcosa, i conservatori sono risultati comunque in cima alla classifica. Insomma, per dirla con le parole di Nick Clegg, il vicepresidente degli Affari Globali della compagnia, “i nostri stessi strumenti stanno aiutando i giornalisti a consolidare una narrazione negativa”.
Che fare? Tra il farsi qualche domanda sul perché i propri algoritmi favoriscano sistematicamente post incendiari e nascondere tutto sotto il tappeto, Facebook sembra aver optato per… azzoppare CrowdTangle, emarginandone il Ceo e trasferendo gran parte del team. L’idea è quella di sostituire la trasparenza sconveniente dello strumento con dei report periodici pubblicati dall’azienda. Insomma, per dirla con Brian Boland, ex pezzo grosso di Facebook che ha lasciato la compagnia per il proprio approccio miope alla trasparenza, “la dirigenza più anziana dell’azienda non vuole investire nella comprensione dell’impatto che hanno i suoi prodotti principali” e “non vuole rendere disponibili i dati affinché altri possano svolgere questo duro lavoro e metterli di fronte alle loro responsabilità”.
La stessa morale della favola si evince da un’altra storia che vede come protagonista Facebook in questi giorni: il braccio di ferro tra la compagnia e l’amministrazione Biden, che ha pubblicamente accusato la piattaforma di star peggiorando la pandemia permettendo alla disinformazione di proliferare. Facebook ha negato la propria responsabilità, affermando che starebbe piuttosto aiutando a salvare vite grazie ai propri sforzi a favore delle campagne vaccinali. Ma la questione rimane la stessa: l’azienda di Zuckerberg è l’unica ad avere accesso ai dati che confermerebbero o smentirebbero questa affermazione, e non sembra avere alcuna intenzione di renderli disponibili. Sempre secondo Boland, Facebook ha “senza ombra di dubbio” tutte le informazioni su come e dove si diffondano i contenuti più problematici, ma “non ha mostrato alcun desiderio di essere più trasparente”.
Il che ci pone di fronte a una domanda scomoda riguardante il concetto stesso di trasparenza, che le grandi piattaforme tecnologiche hanno cominciato ad abbracciare dopo che Edward Snowden ha svelato la campagna di sorveglianza di massa da parte dell’Nsa nel 2013. Oggi, praticamente ogni piattaforma pubblica ha un proprio transparency report in cui racconta al pubblico come ha gestito alcune delle questioni più spinose – come la gestione della privacy, la lotta all’hate speech e alla disinformazione, ma anche le richieste di rimozione dei contenuti da parte dei governi. TikTok ha addirittura aperto dei centri fisici dedicati alla trasparenza.
Cosa si intenda però con questa parola è un altro discorso. Come scrive Charlie Warzel, per la dirigenza delle piattaforme, la trasparenza non è che una strategia comunicativa. Per tutti gli altri, invece, è una questione di accountability, legata a doppio filo al fatto che le piattaforme raccolgono in modo opaco immense quantità di dati personali senza assumersi quasi alcuna responsabilità nei confronti del pubblico. Sta a ricercatori, attivisti digitali e politici esercitare pressione affinché le due definizioni coincidano sempre di più. Altrimenti, continueremo a trovarci davanti a realtà come lo sventramento di CrowdTangle. O peggio, il ridicolo report sulla trasparenza di compagnie come l’Nso Group, l’azienda di sorveglianza israeliana i cui software vengono utilizzati per spiare attivisti per i diritti umani, politici e giornalisti di tutto il mondo… che però è “la prima azienda del settore della cyberintelligence a pubblicare un report sulla trasparenza e la responsabilità”, quindi tutto bene.